SA BISERA - Guardiani Italiani

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Dopo aver dettato istruzioni al parroco del paese sul togliere ogni immagine sacra e foto dei familiari nella camera in cui dovrà recarsi, Jana Lai completa in fretta il rito. Riempie 3 dei 4 bicchieri di vino, disposti a croce sulla tovaglia bianca, lasciando quello vuoto davanti a sé. Poi, preso il pane, lo spezza in due parti e lo appoggia al centro del tavolo. A quel punto, si alza in piedi e esce dallo stazzo. Vestita di nero e con uno scialle a coprirle la testa, la ragazza percorre in fretta il viottolo che dal centro del paese porta fino alla casa in cui è diretta. Nessuno dei passanti che la incrocia osa guardarla, ma nel piccolo borgo tutti sanno che la "Femina Accabadora" è arrivata. Tutti sanno che oggi qualcuno morirà.
Jana trova la porta della casa già aperta, entra, e con passo deciso si dirige verso la camera da letto. Anche con la porta ancora chiusa, sente il respiro affannoso del malato. Prima di entrare, indossa la maschera nera di legno, intagliata con colpi decisi e nervosi di coltello a formare una geometria stilizzata e rozza del volto umano. Quella maschera sarda, divenuta celebre grazie alle caratteristiche figure dei Mamuthones che la indossano quando sfilano al Carnevale di Mamoiada, nasconde, in verità, un significato molto più arcaico legato al rito della “dolce morte”. In genere, le famiglie che richiedono il suo intervento lo fanno per familiari anziani e malati, ma questa volta è diverso. Una volta all'interno della camera, per un istante che sembra congelato nel tempo, la ragazza si blocca. Solo 4 anni prima, lei, proprio lei, aveva aiutato la madre di quel bambino a farlo nascere... e ora...
Quando Jana esce dalla casa trova la cesta lasciata dai familiari. La pratica non deve essere retribuita dai parenti del malato, il pagare per dare la morte è contrario ai dettami religiosi, ma molte famiglie si sdebitano con cibo e vestiti. Una volta fuori dal paese, il cellulare di Jana squilla. E' Tzia Nartzisa, sua madre adottiva, che con un solo squillo le segnala di tornare, quanto prima, alla domus de janas, il tempio segreto scavato nella roccia dove la ragazza ha passato gran parte della propria giovinezza.
Jana, infatti, orfana di entrambi i genitori, è stata prima adottata e poi istruita nel luogo segreto da Tzia Nartzisa, che le ha impartito tutto il sapere per farla diventare una Femina Accabadora, una "sacerdotessa della morte", proprio come lei. Jana, come tutte le Accabadore, aveva prima imparato a prendersi cura della vita, come levatrice, e poi, solo dopo anni di allenamento e studio dell'anatomia umana, aveva imparato anche a togliere la vita, in qualità di "colei che finisce".
Due giorni dopo la ragazza giunge alla struttura sepolcrale, la domus de janas, costituita da tombe scavate nella roccia, tipiche della Sardegna prenuragica. All'interno, sdraiata sul letto, la madre l’attende.
«Jana, sei arrivata, finalmente.»
«Tzia Nartzisa... che succede?»
«Lo sciamano degli Iliensi, Tomasu Usai, custode della Stella degli Dei, è venuto a mancare... ora, sua nipote Anna Melis è la nuova custode del manufatto e il Guardiano NUR si è già palesato a lei. Dobbiamo proteggerla, Jana, è il compito principale delle accabadore legate al clan degli Iliensi.»
Jana avverte qualcosa di nuovo nella voce della donna e nota che tutte le immagini sacre e i crocefissi sono spariti dalle mura della grotta.
«Ho conosciuto Anna, quando ho incontrato suo nonno. Quale pericolo può mai correre?»
«Ho visto il futuro, le forze del male si stanno rafforzando. S’Erkitu, il negromante, aiutato dalla sua orda di demoni, è intenzionato a impossessarsi proprio della Stella degli Dei ora in mano a quella ragazzina. Incontrerai un uomo, anche lui, proprio come te, conosce fin troppo da vicino la morte... insieme, proteggerete Anna... »
«Tu non verrai?»
«Jana, figlia mia, non far finta di non aver capito. Ti ho preparata fin da piccola a questo... ora, abbraccia il tuo destino e metti fine alla mia vita!»
«Sono una Femina Accabadora, incaricata di porre fine alla vita solo di moribondi la cui agonia dura da troppo.»
«Sei molto più… in questo luogo, ti ho addestrata come guerriera, come "figlia del sangue", generata, come lo siamo state tutte, dalla Grande dea Madre. Ora che il mio compito è terminato, devo morire per mano di una mia simile. E' il destino di una Femina Accabadora, quello di essere finita allo stesso modo delle persone a cui ha tolto la vita!»
Jana sa che sua madre ha ragione. Sapeva, fin da piccola, che quel giorno sarebbe arrivato, ma dentro di sé, vorrebbe rimandarlo all'infinito. Tzia Nartzisa, tuttavia, come ogni Accabadora degna di questo nome, è risoluta anche in punto di morte.
«Su mazzolu è dietro di te...»
La giovane si volta e vede il martello in olivastro. Il suo aspetto richiamava immediatamente l’immagine stereotipata della morte. Lo afferra.
«Jana, figlia mia, ricorda il tuo nome quando indossi la maschera della morte!»
Jana, annuisce, poi, con un movimento deciso, alza il martello per frantumare, con un colpo secco, l’osso parietale.
La madre inclina la testa e le sorride. Per l'ultima volta.
La ragazza trasferisce la donna senza vita nel luogo della domus de janas designato come sepoltura. Dopo aver deposto il corpo in posizione fetale, sistema gli oggetti più cari alla madre accanto alle sue spoglie.
Solo il tempo di un ultimo saluto. Dopo aver accarezzato la sua fronte, come faceva da bambina, Jana si alza in piedi. Per lei è già ora di ripartire...
Indossa la mastruca, la casacca di pelle ovina e prende con sé le armi: la spada degli antichi Shardana, i pugnali ad elsa gammata nella civiltà nuragica e l'antica leppa sarda appartenuta a Tzia Nartzisa, una sorta di sciabola con incisa la parola "Attitu", a indicare l'omonimo lamento funebre per un defunto, anche nemico, che compare sul dorso della lama solo dopo che questa viene imbevuta del sangue della vittima. Infine, indossa la maschera della morte e ricorda le ultime parole di sua madre:
"Jana, figlia mia, ricorda il tuo nome quando indossi la maschera della morte!"
«Sono la figlia del sangue, sono la porta per la morte, il mio nome è...
SA BISERA!»



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